I vescovi di Sicilia e l’autonomia differenziata

By 14 Marzo 2024 News No Comments

Toc Toc! Ancora una volta, i vescovi di Sicilia bussano alle “porte” della classe politica per fare sentire la propria voce. Infatti, mentre è in corso l’iter parlamentare relativo alla proposta volta ad introdurre il c.d. “regionalismo differenziato” (in questo momento il d.d.l. S615, superato l’esame del Senato, è approdato alla Camera), i pastori siciliani sono tornati a farsi sentire con un comunicato, che segue quanto già osservato nel maggio 2023, nel quale esprimono non poche preoccupazioni sulle conseguenze che potrebbero aversi se si giungesse all’approvazione della legge. Sembra opportuno soffermare l’attenzione su talune delle osservazioni che vengono svolte nel comunicato in discorso.

Chiesa e politica

Per prima cosa, preme anticipare una facile (e scarsamente consapevole) critica che potrebbe essere indirizzata ai prelati da parte di qualche poco avveduto commentatore: perché la gerarchia ecclesiastica si interessa di politica? Non dovrebbe forse “stare al suo posto” e limitarsi a trattare le cc.dd. “cose di Chiesa”? Chi fa queste considerazioni, con ogni evidenza, sconosce o sottovaluta lo stretto rapporto che sussiste tra fede e politica. Quest’ultima, infatti, secondo il senso etimologico del termine e l’insegnamento di Aristotele, è da intendersi come virtù al servizio del bene comune, che non è certo da intendersi come la somma dei “beni” (o, se si preferisce) degli interessi individuali, ma la sintesi degli stessi.

Come il Concilio Vaticano II ci ha insegnato, in uno straordinario e noto passaggio che fa da mirabile sintesi di quanto si sta ora dicendo, “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes 1).

Una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano

D’altra parte, è a tutti nota l’affermazione di Paolo VI per la quale la politica è da considerare “una maniera esigente […] di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (Ocotegesima adveniens 46). Anche Francesco ha osservato che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune” (Evangelii gaudium 205). Non a caso, infatti, il Santo Padre ha invitato l’Azione cattolica italiana, il 30 aprile 2017, riunita in p.zza S. Pietro per festeggiare i suoi 150 anni di storia, a “mettete[rsi] in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola!”.Non è possibile soffermarsi sul punto, che pure merita primaria attenzione, essendo ora necessario entrare nel merito delle considerazioni dei vescovi.

Partiamo dalla fine: l’unità nazionale

Propongo di partire dalla fine del comunicato. In chiusura, i pastori fanno presente che “preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate” mettono a rischio l’unità nazionale. Possiamo considerare davvero fondata tale paura? Per rispondere, conviene accennare un attimo al concetto di unità nazionale che, in estrema sintesi, si concreta in “quei principî nei quali si sostanzia l’idem sentire de re publica delle forze politiche che hanno dato vita all’ordinamento” (secondo le parole di T. Martines, compianto costituzionalista messinese); essa, infatti, fa (ed è) sintesi dei valori che stanno alla base dell’etica pubblica repubblicana. È allora da precisare che, a tal proposito, non si può fare riferimento solo all’“unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, [al] senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica” (Corte cost. n. 1 del 2013).

Non v’è dubbio che l’introduzione di forme differenziate di autonomia, se non adeguatamente predisposte, possano insidiare valori come quello di eguaglianza e di solidarietà, ma anche quello di unità ed indivisibilità della Repubblica ed altri ancora che appaiono preziosi al fine di favorire la coesione sociale ma, in generale e soprattutto, per preservare (e quindi non tradire) lo spirito della Costituzione italiana.

Il mancato richiamo all’art. 2 Cost. e la (nuova) “questione meridionale”

Inoltre, commentando il d.d.l., i prelati rilevano che “manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost.”, considerato “fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti”. Un riferimento a quest’ultima (fondamentale) previsione sarebbe stato molto utile e importante (anche se non indispensabile, perché potrebbe ritenersi implicito), ma non solo perché essa discorre dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. A norma dell’art. 2, principale fondamento del principio personalista che permea l’intera Carta del ’48, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che sarebbero minacciati da forme differenziate di autonomia che non fossero bene equilibrate.      

Infatti, il rischio che si accentui il divario tra Nord e Sud (in particolare) sul piano della tutela dei diritti fondamentali, generando un Paese “a due velocità” anche nel godimento degli stessi, è tutt’altro che peregrino.

Si ripropone in nuovi termini (e la ripropongono anche i vescovi) la “questione meridionale”, proprio nel tempo in cui la Costituzione, recentemente revisionata sul punto, promuove l’insularità (come ricordato nel comunicato che qui si discute).

A proposito dell’art. 5 Cost.

Una cosa, però, conviene chiarirla da subito: i valori di “unità e indivisibilità della Repubblica”, che sono espressi in un inciso dell’art. 5 Cost. (invero non richiamato dai vescovi) e che non sono da intendere solo in modo “fisico”, non si pongono in contrasto con il principio autonomistico, anch’esso alla base della Carta del ’48. Anzi, nel principio in parola si specifica che la Repubblica deve “riconosce[re] e promuove[re] le autonomie locali”, “attua[re] nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo” e “adegua[re] i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

I vescovi, opportunamente, osservano che l’autonomia differenziata è concessa dalla stessa Costituzione. Infatti, la possibilità di attribuire alle Regioni, con legge, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” è prevista all’art. 116, III comma, Cost. Tale previsione si pone in diretta attuazione dell’art. 5 Cost. ora cit., ma finora è rimasta “lettera morta”. Com’è chiaro, non ci si può dolere (e ci si dovrebbe rallegrare) del fatto che la Carta costituzionale venga attuata, ma purché non se ne deformino i tratti essenziali e non se ne tradisca lo spirito.

Sui LEP

Un altro punto messo in luce dai pastori siciliani è relativo ai livelli essenziali delle prestazioni (i cc.dd. LEP), che dovrebbero essere definiti con decreto legislativo e aggiornati con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (v. art. 3, VII comma). A quest’ultimo proposito, effettivamente, un conto è ricorrere all’uso di tali decreti in caso di emergenza, come accaduto durante la pandemia (anche se pure al riguardo si potrebbe discutere), altro è fare ricorso a tale fonte in condizioni di “normalità”. Ragioni di economicità e di tempo non sembrano infatti sufficienti a giustificare una esautorazione del Parlamento dalla procedura di aggiornamento in discorso.

In conclusione

Purtroppo non c’è spazio per affrontare gli altri aspetti messi in risalto dai vescovi siciliani, ma quanto detto pare sufficiente a rilevare che le preoccupazioni messe in luce dagli stessi sono tutt’altro che infondate. L’auspicio, allora, è che questa voce non rimanga inascoltata, ma soprattutto che ad essa si unisca quella del laicato cattolico che, per i motivi che si sono fugacemente esposti, non può stare ai margini del dibattito pubblico, ma ad esso deve partecipare con senso di responsabilità ed in spirito di servizio, al fine di vivere una fede “incarnata” e non intimista capace di leggere i “segni dei tempi” e di accogliere (e, possibilmente, superare) le sfide che gli si presentano (cfr. Evangelii gaudium 109).
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